Alfonsa Rosa Maria “Alfonsina” Morini coniugata Strada, è stata l'unica donna a partecipare ad un'edizione maschile del Giro d'Italia. Correva l'anno 1924.
Cento anni fa, il solo immaginare una donna fare a pugni, come Irma Testa, o correre in bici come la cara e coraggiosa Alfonsina, era oggetto di scandalo e ilarità. Era quasi roba da streghe. Si distruggevano rapporti, diplomatici, economici, familiari, sulla questione femminile, che ancora non era una questione, ma semplicemente era qualcosa di inimmaginabile, immorale, impossibile. Eppure, tra la consuetudine dei ruoli di sottomissione destinati al genere femminile, esistevano donne che cominciavano ad alzarsi in piedi, a determinarsi, a rincorrere i loro desideri. Una di queste, era Alfonsa Rosa Maria “Alfonsina” Morini coniugata Strada, la prima donna che ha partecipato al Giro d’Italia, il Giro d’Italia maschile.
L’esistenza di una donna libera di esprimersi era condannata a subire scherni, derisioni, mosse da un vizioso giudizio di immoralità.
Ma Alfonsina, non ha mai dato retta agli strilli dileggianti e alle accuse, lei ha sempre e solo pensato ad una cosa: pedalare.
La sua passione per le due ruote nacque nel 1901, quando il padre Carlo Morini portò in casa una bicicletta sgangherata ma funzionante. Lei aveva dieci anni, salì sul quel catorcio e imparò a pedalare. Da quel momento in poi, non avrebbe mai più smesso.
A soli quattordici anni trovò il modo di partecipare a diverse gare locali. Ovviamente a suoi genitori non poteva dirlo. Le gare si svolgevano di domenica, cosa che le offriva la possibilità di uscire di casa con la scusa di recarsi alla Chiesa più vicina per la Messa domenicale. Ma l’eucarestia di Alfonsina non era l’Ostia divina, erano i pedali.
Quando i suoi genitori scoprirono “l’oscenità”, le dissero che per continuare a correre avrebbe dovuto sposarsi e andare via di casa. Loro non volevano macchiarsi di tale indecenza. Nelle piccole comunità emiliane dove vivevano, una donna che voleva correre in bici era sufficiente a isolare un’intera famiglia per disonore: le donne emancipate, non solo ai pedali, erano uno scandalo da evitare.
Così nel 1905 sposò un meccanico e cesellatore, Luigi Strada, con il quale si trasferì a Milano. Come regalo di nozze Luigi le comprò una nuova bicicletta da corsa. Nonostante fosse un uomo come tutti, notò il talento della “sua” Alfonsina, e con sotterfugi vari la sostenne. Il ciclismo all'epoca era cosa per eroi e gli eroi non potevano essere donne. Ma Alfonsina, lo era.
La città del ciclismo in Italia era Torino. Nella capitale sabauda le donne in bicicletta, a differenza del resto d’Italia, non erano motivo di scandalo. Ed era proprio a Torino, che Alfonsina sarebbe sempre voluta andare.
Quando le ruote della bici di Alfonsina cominciarono a battere le strade della capitale piemontese, in pochi anni lei diventò Miglior Ciclista Italiana. In città infatti si tenevano competizioni su velocipedi per donne. Ma badate bene, nessuna donna ancora poteva partecipare alle vere corse come il Giro d’Italia, organizzato dalla Gazzetta dello Sport e il Giro di Lombardia. Quella era roba da maschi.
Nel 1911 a Moncalieri, la sete di vittoria di Alfonsina la rese in grado di polverizzare il record mondiale di velocità femminile in bici, raggiungendo i 37,192 chilometri orari. L’emiliana stracciò il record precedente, stabilito otto anni prima dalla francese Louise Roger. Era l’inizio dei suoi successi.
Furono proprio i francesi ad accorgersi del talento atletico dell’italiana, e furono i primi a procurarle nuove gare nei velodromi francesi, dove Alfonsina non deluse le aspettative: ottenne successo e popolarità.
Ma Alfonsina voleva di più. Voleva essere come tutti gli altri, voleva essere considerata al pari dei campioni del ciclismo maschile. Vero, lei poteva gareggiare, ma solo in corse ghettizzate e destinate alle sole atlete femminili. Non le bastava, voleva dimostrare che le donne erano capaci di gareggiare contro gli uomini, e non accettava il fatto di dover essere esclusa, per il solo fatto di essere donna, da quello che era considerato come il tempio dei campioni riservato a soli uomini: il Giro d’Italia.
Così, una mattina del 1917, in piena Guerra Mondiale, Alfonsina si presentò alla redazione della Gazzetta, per iscriversi al Giro di Lombardia, la seconda competizione ciclistica più importante all'epoca dopo il Giro d’Italia. I segretari restarono basiti. La richiesta di Alfonsina sconvolse mezza redazione creando trambusto e sconcerto. Aprirono il grande libro del regolamento sportivo, e non trovarono nessuna norma che avrebbe impedito ad Alfonsina, in quanto donna, di partecipare.
Armando Cougnet, patron delle corse, accettò la sua iscrizione. Era la prima volta che ad una donna era permesso iscriversi a una corsa su strada sfidando atleti di sesso maschile.
Il 4 novembre 1917, il Giro di Lombardia prese il via. 204 chilometri di pianura, montagne e discese. Non vinse, ma fu una giornata da ricordare. Aveva scritto la storia, era successo qualcosa che nessuno aveva mai visto prima: una donna in bici che lottava contro atleti maschi. Ovviamente il pubblicò reagì in malo modo, per non parlare della stampa. La presenza di Alfonsina nella gara fu considerata una bizzarria, e la ciclista fu travolta da commenti, derisioni pungenti e offese sessiste di ogni colore. La donna doveva fare la donna, stare a casa con i figli.
La rabbia contro l’idiozia del mondo che la circondava, le diede la forza di tornare a Milano anni dopo, nel 1924, e strappare al mondo il suo sogno: iscriversi al Giro d’Italia.
Aveva davanti a sé un muro invalicabile, alto, spesso, un muro che lei stava puntando con la sua bicicletta, motivata ad abbatterlo con la sua forza d’animo. La richiesta di Alfonsina sconvolse l’organizzazione: era davvero andata troppo in là. Ma tra i tanti oppositori che le davano addosso, ci fu anche chi vide in Alfonsina un’ottima opportunità promozionale per la corsa a tappe.
Tra mille polemiche, Emilio Colombo e Armando Cougnet, direttore e amministratore della Gazzetta dello Sport, accettarono la sua iscrizione al Giro d’Italia. Tra gli organizzatori, in molti, avevano paura che la scelta “promozionale” fosse in grado di rendere una pagliacciata, agli occhi del pubblico, la competizione. La partecipazione al Giro di Alfonsina, avrebbe sminuito le gesta degli eroi. Non perché non ne fosse all'altezza, ma semplicemente perché era una donna.
Il suo nome infatti non apparve nell'elenco dei partecipanti. Preferirono nascondere “l’impudicizia”. Solo a tre giorni dalla partenza il suo nome comparve sulla Gazzetta dello Sport. Ma la redazione non ebbe il coraggio di battere quella “a” finale che determinava il sesso dell’atleta, e scrisse ambiguamente “Alfonsin Strada di Milano”. Peggio fece “Il Resto del Carlino” di Bologna, che si rifiutò di scrivere il nome di una donna tra gli atleti, e tramutò di genere l’identità di Alfonsina scrivendo “Alfonsino Strada”.
Ma alla partenza del Giro, la Gazzetta fu costretta a chiarire la vicenda, e ad ammettere che a quel Giro d’Italia avrebbe preso parte una donna: Alfonsino non era mai esistito. Esisteva solo lei, e si chiamava Alfonsina. La notizia volò presto in tutta Italia, creando curiosità, sospetto, in alcuni casi approvazione, ma nella maggior parte un perfido e un tagliente scherno. Ma ad Alfonsina, tutto quello che pensava la gente, non importava. Ancora una volta, lei voleva solo pedalare, correre, e dimostrare con i fatti quel che nessuno credeva possibile.
3623 chilometri, 12 tappe su e giù per la penisola italiana. 108 iscritti. Alfonsina tagliò il traguardo ad ogni singola tappa. Tra il pubblico a bordo strada che incoraggiava gli atleti, c’era chi la prendeva in giro, ma c’era anche chi aveva capito che il muro del patriarcato aveva cominciato a vacillare. Erano pochi, pochissimi, ma le chiedevano di fermarsi per autografare la loro cartolina con la sua foto.
L’organizzazione del giro e tutti i corridori maschi che correvano al suo fianco, cominciarono ad innervosirsi tappa dopo tappa. Perché Alfonsina non solo stava partecipando, ma era anche in grado di battere molti dei suoi colleghi maschi. E questo, per il clima dell’epoca, era un oltraggio all'uomo agone, all'eroe, al macho imbattibile.
Durante una tappa, l’Aquila – Perugia, Alfonsina cadde più volte, e giunse al traguardo fuori tempo massimo per via dei problemi riportati inseguito alle cadute.
In genere, in questi casi, l’organizzazione non aveva mai escluso un atleta, giustificando il ritardo con le cadute. Ma quando la giuria si riunì per decidere su Alfonsina, fu scelta la linea dura, e soprattutto, fu presa al balzo l’occasione di eliminare un problema che stava scaldando gli animi. Alfonsina era diventata una questione politica. Ne valeva l’onore della competizione. Così, la ciclista emiliana fu esclusa dalla classifica del Giro. Tutti gli uomini in sella alla loro bici, fin dall'inizio della corsa a tappe, non erano riusciti a tollerare il fatto che una donna fosse al loro fianco per sfidarli, per non parlare di quando venivano sconfitti dalla giovane Alfonsina. Era una cosa ineccepibile. Non poteva esistere la sconfitta, perché contro una donna, non poteva esistere competizione. Lei non sarebbe dovuta proprio essere lì tra loro. Così, al termine della tappa L’ Aquila – Perugia, con la squalifica di Alfonsina, i corridori ottennero quello che volevano: la giustizia patriarcale, la loro quotidiana discriminazione di genere.
Nonostante la squalifica, Alfonsina prese parte a tutte le restanti tappe. I suoi tempi non furono cronometrati perché era ormai esclusa dalla classifica. All'arrivo di Milano dell’ultima tappa, dei novanta atleti partiti, ne giunsero solo trenta. Una dei quali, era proprio Alfonsina.
Nonostante il maschilismo dello sport l’aveva osteggiata senza mezzi termini, lei riuscì a togliersi altre soddisfazioni contro i suoi colleghi uomini. Nella sua carriera di sportiva vinse ben 36 corse contro i colleghi maschi, conquistando la stima sportiva delle poche menti aperte e libere dell’epoca. Alfonsina è stata una pioniera, è stata una combattente in prima linea. È stata la prima donna che ha scosso il mondo sportivo italiano. Alfonsina è stata la prima ciclista a combattere per la parità.
Sarebbero dovuti passare ancora tanti anni, prima che nel mondo si iniziasse a vedere un briciolo di parità nel mondo dello sport, per non parlare del fare quotidiano. Per esempio, le atlete del pugilato, per poter battersi in una competizione ufficiale, hanno dovuto aspettare il decreto del 2001, sostenuto dall'allora Ministra delle Pari Opportunità Katia Bellillo. Parliamo di quasi cento anni, cento anni dopo l’impresa di Alfonsina, durante i quali molte donne hanno lottato per strada, rivendicando quello che la natura ha dato e che l’uomo, con la sua crudeltà, ha tolto: la libertà degli esseri umani, senza distinzione.
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