Interrogandoci sull’importanza e sulle potenzialità creative del cinema d’archivio, abbiamo deciso di approfondire il tema con una delle principali esponenti del genere, Alina Marazzi, regista cinematografica e teatrale. Con un focus sui materiali archivistici, abbiamo analizzato due opere della sua filmografia.
Un’ora sola ti vorrei (2002) è il primo lungometraggio documentario d’autore, fondativo della sua poetica. Ritratto della madre prematuramente scomparsa, Luisella Hoepli, è stato realizzato quasi esclusivamente con filmati di famiglia. Nel 2002 il film ha ricevuto la Menzione Speciale al Festival di Locarno e al Festival dei Popoli, vincendo nel 2003 il Premio Miglior Documentario al Torino Film Festival.
In che modo è avvenuto l’approccio all’archivio di famiglia utilizzato per la realizzazione del film?
A posteriori mi sono spesso chiesta se non avessi trovato quei filmati di famiglia se mi sarei mai imbarcata, e quando, a realizzare un film sulla figura di mia madre. Forse l'avrei fatto più avanti nel tempo, in un'altra forma, ma l’incontro con questi materiali mi ha imposto di farne qualcosa. All'epoca avevo già frequentato la scuola di cinema e portato a termine dei lavori meno personali, però la strada del documentario e della regia era già avviata. L’approccio è stato quindi di totale libertà: si è trattato di un momento di svolta sia da un punto di vista privato e personale, sia da uno professionale e creativo. Il film è poi cresciuto in sala di montaggio con la collaborazione di Ilaria Fraioli, con un lavoro durato diversi anni, attraversato da lunghe pause.
Come hai vissuto il distacco tra la tua vita privata e il fatto di donarla al pubblico?
Questo film è un progetto che nasce per esigenze assolutamente private, non avrei mai pensato di condividerlo con il pubblico. Essendo però il processo creativo un processo graduale, man mano che l’opera cresce non è più solo tua, ti sfugge di mano ed assume una propria identità, un proprio corpo. Lavorando con altri collaboratori, ho avuto la possibilità di condividere diverse idee sulle visioni, nelle varie fasi della realizzazione. Una volta concluso, non è stato facile lasciarlo andare perché metteva a nudo tante cose. Sono stati amici e colleghi ad incoraggiarmi a mandarlo al Festival di Locarno nel 2002, e da lì ha preso la sua strada. È stato detto tanto su questo film in ventidue anni: ho ricevuto commenti molto personali, ma anche riflessioni interessanti sull'aspetto filmico-creativo, che mi hanno arricchito e mi suggerito i passi successivi.
Al centro del tuo lavoro di ricerca troviamo la soggettività femminile. Com’è stato ricostruire il ritratto di una donna che era anche tua madre?
È stato difficile: lei era la protagonista del racconto e io non avevo ancora affrontato del tutto questa vicenda. Ero in un'altra fase della mia vita, quindi quello che ti potrei dire oggi ha una temperatura emotiva molto diversa da quello che ti avrei detto allora, però si è trattato di un vero e proprio percorso di riappropriazione di una figura dimenticata. È stato un lavoro personale, in cui l’approccio creativo, fatto di esperimenti narrativi filmici, riempiva le voragini emotive che lo scavo produceva. Penso che questo processo di riscatto dall'oblio sia presente anche nei miei film successivi.
In che modo hai gestito il ruolo ambivalente di regista e figlia della protagonista del tuo film? Hai dovuto tracciare un confine da rispettare?
Trovare l'equilibrio tra queste due posizioni è stata la chiave che mi ha permesso di realizzare il film senza soccombere a una tempesta emotiva (e magari a una confusione anche narrativa). Il lavoro a quattro mani con la montatrice Ilaria Fraioli, persona vicina ma esterna alla vicenda, mi ha dato modo di essere contemporaneamente dentro e fuori al film, quindi di poter effettivamente dirigere, dando vita ad una narrazione che potesse essere compresa da persone estranee. Era importante per noi creare una tensione narrativa, un racconto per immagini: questo è stato fatto grazie ad un lavoro di scrittura e montaggio a partire dai materiali, e quindi gradualmente, con tanto tempo a disposizione.
Vogliamo anche le rose (2007) analizza il movimento femminista e la liberazione sessuale nell'Italia a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, attraverso le vicende di tre donne di diversa estrazione sociale. Tra i numerosi riconoscimenti, il film è stato nominato nel 2008 al David di Donatello come Miglior Documentario.
Hai realizzato Vogliamo anche le rose diciassette anni fa, quali sono le tue impressioni sull’attuale condizione delle donne in Italia?
Mi colpisce molto come questo sia un film che viene ancora proiettato spesso, soprattutto in concomitanza dell'8 marzo. Evidentemente è un film vivo, perché i temi che porta sullo schermo, pur contestualizzati a quell'epoca, sono attuali ed in parte irrisolti. Il discorso sulla condizione della donna oggi è molto diverso, anche rispetto al 2007, perché sono esplose tante declinazioni diverse di soggettività femminile. Penso che ci sia un grande cambiamento in atto, ma al tempo stesso continua a esserci una grande cappa tradizionalista che impone una certa categorizzazione del maschile e del femminile. Nonostante veda questa apertura in certe generazioni, mi pare che il pensiero dominante sia ancora antico: si fa fatica a scardinare la griglia del patriarcato.
Com’è avvenuta la fase di ricerca dei materiali di archivio utilizzati nel complesso lavoro di montaggio del film?
La fase di ricerca è stata fatta nei primi anni 2000, quindi in un'epoca in cui non era ancora avvenuto questo grande processo di digitalizzazione dei materiali. Sono andata in giro per l’Italia per vedere materiali su cassetta, ricevendo l'ausilio di ricercatori interni a diverse istituzioni (Cineteca Nazionale, Teche RAI, primi archivi di famiglia, università): è stato abbastanza rocambolesco, però così si faceva allora. Più volte penso a come sarebbe stato farla con le modalità odierne: sicuramente sarebbero emersi molti più materiali! È stato entusiasmante compiere una ricerca molto ampia, trovare materiali poco conosciuti: ero interessata al cinema d’autore, sperimentale, o realizzato dal cinema militante (Alberto Grifi, Adriana Monti o Annabella Miscuglio). Ci sono anche molte pubblicità di qualità dentro al film, realizzate da animatori-artisti che restituivano un po’ la dimensione pop, più visionaria, psichedelica di quegli anni, che mi interessava.
Oltre alla carriera cinematografica, ricordiamo anche la tua attività di insegnamento in Italia e all’estero. Qual è il consiglio più importante che daresti a chi si approccia per la prima volta alla realizzazione di un documentario con materiale di archivio?
Intanto di venire al Festival UnArchive (di cui Alina cura la direzione artistica insieme a Marco Bertozzi, ndr)! La pratica del found footage è esplosa negli ultimi vent’anni: c'è questo interesse da parte di autori, anche molto giovani, ad utilizzare materiali d’archivio di qualsiasi tipo, con il desiderio di reinterpretare le narrazioni del passato in maniera critica, ma anche giocosa. Guardare le immagini di allora può far riflettere sulle rappresentazioni dell'oggi: credo che lavorare con gli archivi sia una pratica che possa arricchire chi si approccia a fare film.
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IL CASSETTO SEGRETO
Regia di Costanza Quatriglio
Sinossi
La Sicilia, il mondo, una casa, una biblioteca. Nel gennaio 2022 Costanza Quatriglio torna nella casa dov’è cresciuta, chiusa da tempo, e apre le porte ad archivisti e bibliotecari per donare alla Regione Siciliana l’universo di conoscenza appartenuto al padre giornalista. È la biblioteca e l’archivio di Giuseppe Quatriglio, firma storica del Giornale di Sicilia e di altre importanti testate, scrittore, saggista e amico di uomini di cultura del Novecento.
Comincia così un viaggio sentimentale attraverso fotografie, bobine 8mm, registrazioni sonore realizzate dal padre dagli anni ‘40 in poi in Europa e nel mondo, e le riprese effettuate dalla regista tra il 2010 e il 2011 con lui quasi novantenne. La memoria personale e la memoria collettiva si mescolano in un fitto dialogo tra presenza e assenza. Palermo e la Sicilia, con la loro storia e la loro cultura, sono il punto di osservazione del mondo da cui tutto parte e a cui tutto torna.
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