Hai visto Drive Me Home in una versione intermedia, un rough cut non definitivo. Simone Catania ci teneva molto alla tua opinione. Hai una enorme esperienza come editor letterario, ti ricordi che impressione hai avuto, che sensazione ti ha dato vedere un film in corso di finalizzazione, e che consigli hai dato? Sì, è stato un piacere e un bell’onore poter vedere il film ancora “grezzo”, senza colonne sonore e con un montaggio ancora non definitivo. Ho avuto subito l’impressione di trovarmi di fronte a un film con un’alta densità, sia emotiva sia nella grana delle scene, delle fotografie, dei dialoghi, dei luoghi, un film che evoca qualcosa di primitivo e con un forte magnetismo. Ricordo di aver consigliato a Simone Catania di porre attenzione sul montaggio di alcune parti, in special modo l’inizio, perché la sequenzialità di alcune scene non mi era risultata chiarissima.
Oltre ad essere un grande scrittore, sei un grande viaggiatore. Hai lasciato l'Italia a lungo,
hai riflettuto da lontano sul tuo paese, per poi tornarci. I personaggi di Drive Me Home hanno viaggiato senza meta, ma con il comune scopo di andar via dall'Italia, per poi forse, anche loro, fare ritorno. Credi che questa idiosincrasia nei confronti del proprio paese (restare, andare, tornare) sia un fenomeno soprattutto italiano? No, non lo è, solo italiano. Al contrario, il tema del viaggio è il tema del nostro tempo. Staccarsi dalla propria origine e andare faticosamente a cercare di essere qualcun altro – con una vita materiale e forse anche spirituale si spera migliore – è la cifra del nostro tempo. Basti pensare che l’anno scorso 68 milioni di persone hanno dovuto lasciare la propria casa, nel mondo. Oggi lo vediamo come prese di posizioni politiche retrograde su ciò che deve accadere alla fine del viaggio. Oggi l’approdo, la conclusione del proprio viaggio, è diventato un momento su una politica senza grandi aspirazioni e visioni si gioca le campagne elettorali. Ma raccontare il viaggio, oggi, è raccontare l’uomo. La crisi economica globale e le tecnologie dei trasporti, rispetto anche soltanto a 50 anni fa, rendono il viaggio non soltanto una possibilità, ma una necessità, e così tornano ad aprire la nostra vita all’epica. Ad abbandonare la propria origine per cercare di diventare da un’altra parte chi si è destinati a essere. Da italiani, abbiamo avuto una parentesi di benessere economico durato una quarantina d’anni – dal secondo Dopoguerra agli anni 90 – durante il quale il viaggio non è più stato visto come necessario, ma per il resto siamo sempre stati, e siamo tornati a essere, un popolo di emigranti. Non esiste quasi paese del mondo in cui non ci sia la presenza di forti comunità di italiani.
Che rapporto hai con il cinema, con la scrittura cinematografica? Cosa ti affascina, cosa invece pensi sia lontano da te e dal tuo modo di approcciare le storie? Il cinema e la letteratura sono due linguaggi molto diversi che fanno la stessa cosa: raccontano l’uomo attraverso delle storie. Il metodo è molto differente, nel cinema ci sono le immagini e le immagini già di per sé dicono qualcosa a chi le guarda, senza bisogno della mediazione della parola, ma di altri mezzi più diretti, non linguistici (luci, fotografia, musiche, movimenti). In letteratura tutto si gioca attraverso le parole, e le immagini vanno costruite, occorre far vedere la luce, sentire una musica che non c’è, mostrare un movimento. La letteratura è un’arte “intima” (si consuma tra due solitudini, quella dello scrittore che scrive prima, e quella del lettore che legge poi), il cinema è un’arte pubblica, condivisa (anche se oggi siamo tornati a vedere i film da soli, in streaming sui nostri pc, e questo naturalmente sta influenzando il cinema stesso). Proprio per questa sua diversità dalla letteratura, la scrittura cinematografica mi affascina molto, perché mi diverte, è un rito collettivo, e come rito collettivo ha al suo interno la condivisione delle emozioni fin dal suo principio. Per quanto poi riguarda il cinema per così dire “finito”, sono un grandissimo spettatore di film, da sempre. C’è stato un periodo della mia vita in cui guardavo tre film al giorno, tutti i giorni. Finché non mi sono accorto di aver guardato tutti i film contenuti non soltanto nella mia biblioteca di riferimento, ma anche in quelle limitrofe. Una boutade attribuita a Walt Disney dice che “Quando un attore non funziona, basta
stracciarlo”. Immaginiamo che anche per uno scrittore come te valga più o meno la stessa battuta. Quando invece vedi interpretazioni come quelle di Marco D'Amore e Vinicio Marchioni in Drive Me Home, che danno ai personaggi spessori, sfumature e tocchi “magici”, pensi che l'assunzione di un personaggio da parte di un attore dia in realtà un apporto impagabile e impensabile a quanto originariamente scritto sulle pagine? Certo, il film è fatto dagli attori e dai luoghi, e dal modo in cui gli attori si muovono nei luoghi e parlano. È lì che tutto accade, questo è tutto ciò che lo spettatore ha davanti agli occhi (naturalmente insieme a della musica nelle orecchie). Ci sono film scritti male, con dialoghi sciatti e snodi non lavorati, che con grandi attori diventano comunque film convincenti. E al contrario film scritti alla perfezione, ingranaggi perfetti, che attori non adatti trasformano in film sterili. Nel cinema, ogni cosa è quello che si vede (e naturalmente l’abilità di un grande regista è nascondere allo spettatore molte delle cose che in realtà sta vedendo). Credo che Marco D’Amore e Vinicio Marchioni in Drive me home facciano accadere la magia per cui forma e contenuto coincidono, e in qualche modo escono dallo schermo, vanno a prendere gli spettatori, che non rimangono semisdraiati su una poltroncina, ma si sentono attori del film a loro volta.
Con Indyca e Simone stai lavorando ad un nuovo progetto per il cinema, “Samia”, tratto dal tuo libro “Non dirmi che hai paura”, successo internazionale che ha avuto moltissimi riconoscimenti. Fra gli altri è stato finalista del Premio Strega, e si è aggiudicato il Premio Strega Giovani. Il film sarà una coproduzione importante che coinvolgerà tre paesi (Italia, Germania, Francia), la cui regia è affidata alla talentuosa Yasemin Şamdereli. Regista tedesca di origine turca, di famiglia musulmana, una donna europea ma che conosce molto bene la cultura musulmana. Com'è lavorare con lei? Credi che oggi ci siano ancora dei confini da superare o possiamo già definire alcuni progetti europei anziché italiani? Mi fido molto della sensibilità di Yasemin, e del resto io sono un autore non “geloso” della paternità delle proprie opere, ma che al contrario gode artisticamente quando una propria opera diventa altro tra le mani di un altro artista che utilizza un linguaggio differente. È la prova che l’opera di partenza è viva, è materia vitale e quindi conflittuale, perché arriva a ispirare l’arte di qualcun altro. Mi piacerebbe molto pensare di poter definire dei progetti europei e non soltanto italiani, anzi io direi mondiali. Perché un’opera, per come la vedo io, dovrebbe sempre cercare di aver la forza di parlare a ciò che, attraverso i vari paesi del mondo, ci rende tutti uguali. Quindi il più grande augurio che posso fare al film tratto dal mio romanzo è che sia un film europeo, mondiale, che come il libro riesca a parlare a tutti. E sono convinto che nelle mani di Yasemin, e della sua abilità e sensibilità, sarà così.
PORTAMI A CASA con Marco D'Amore e Vinicio Marchioni Prodotto da Indyca e Inthelfilm con #RaiCinema
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